Il placebo funziona benissimo, molto più del previsto



Nuove stranezze vanno a rendere ancora più complesso il fenomeno del placebo, l’intervento terapeutico “finto”. La prima arriva da una ricerca pubblicata sulla rivista Pain da un gruppo guidato da Claudia Carvalho, dell’Instituto Universitario de Ciencias Psicologicas, Sociais e da Vida di Lisbona, che mostra come il placebo “funzioni” anche quando il paziente è perfettamente consapevole di essere sottoposto a un trattamento simulato. La seconda, pubblicata sulla stessa rivista scientifica, da Alexander Tuttle, del Pain Genetics Lab Department of Psychology della McGill University di Montreal, indica invece che con il passare degli anni il placebo ha incrementato la sua efficacia, almeno per quanto riguarda il trattamento del dolore.

L’esperimento con il mal di schiena
La ricerca condotta da Claudia Carvalho e da altri esperti, tra cui Ted Kaptchuk dell’Harvard Medical School di Boston, che da anni si occupa di ricerca sul placebo, è stata condotta su persone affette da mal di schiena, che sono state divise in due gruppi: uno assumeva solo farmaci antinfiammatori e antidolorifici, l’altro, in aggiunta, prendeva anche placebo, che il paziente prelevava da un flacone sul quale era scritto a chiare lettere “Pillole placebo, assumerne due al giorno”. Ebbene, con non poca sorpresa i ricercatori hanno constatato che il primo gruppo ha ottenuto una riduzione del 9 per cento del dolore di base, del 16 per cento del picco del dolore e nessuna riduzione della disabilità, mentre il secondo gruppo (al quale, a scanso di equivoci, era stato anche spiegato chiaramente che cosa fosse un placebo), ha mostrato un’ulteriore significativa riduzione di entrambe le forme di dolore e anche della disabilità. Va detto che l’effetto è stato valutato solo nel breve termine e su un gruppo di poco più di 80 persone, il che rappresenta certo un limite dello studio, però rimane la domanda: come è possibile che un placebo faccia bene anche se chi lo assume sa che è un farmaco inerte?

Non è un intervento inerte di fatto
Una risposta per ora non c’è. «Però siamo proprio certi che il placebo sia da considerare un intervento “vuoto” o inerte? — commenta Piero de Carolis, neurologo, responsabile dell’Unità operativa Ricerca ed Appropriatezza clinica dell’Azienda Usl di Bologna —. Già negli anni Novanta si era visto, in ricerche sul dolore, che le risposte al placebo potevano essere modulate con l’uso di oppiacei e dei loro inibitori (e questo significa che l’organismo per la risposta al placebo usa gli stessi substrati biochimici che usa per la risposta gli oppiacei, ndr); nel 2004, poi, in due studi collegati, pubblicati su Science, ricercatori statunitensi avevano mostrato con tecniche di risonanza magnetica funzionale che malati sottoposti a piccole scosse elettriche, ma che erano convinti che al loro braccio fosse stata applicata una crema antidolorifica, consideravano il dolore meno intenso. E ciò che è più straordinario è che anche i circuiti cerebrali che gestiscono il dolore mostravano una minore attività. Il trasferimento di questi risultati alla pratica clinica, dove il dolore è principalmente di natura cronica, è ancora insoddisfacente, ma un gruppo di esperti della Northwestern University di Chicago, in una sperimentazione appena pubblicata sulla rivista PlOS Biology, è riuscito a trovare un marcatore biologico del dolore nelle immagini cerebrali ottenute con la risonanza magnetica funzionale, e a individuare l’area cerebrale implicata nella risposta al placebo, che risulta situata nella corteccia cerebrale all’interno del giro frontale medio. Questi dati neurofisiologici indicano che, almeno per il dolore, il placebo non è per niente, da un punto di vista neurofisiologico, un intervento inerte».

Il metodo in «doppio cieco» per fare paragoni
Il secondo fenomeno inaspettato cui si accennava all’inizio, cioè l’aumento dell’efficacia del placebo, circola da un po’ nei congressi dei ricercatori impegnati in trial clinici. Il motivo? Presto detto: i nuovi farmaci prima di entrare nel mercato devono dimostrare di essere superiori al placebo, ma la loro efficacia sembra negli anni essersi sempre più ridotta, e molti hanno cominciato a pensare che la responsabilità fosse da attribuire proprio a un aumento di efficacia del placebo, che sta erodendo il margine di confronto. Un farmaco, per entrare sul mercato, deve dimostrare un’efficacia superiore al placebo. I ricercatori effettuano appositi studi, i cosiddetti trial randomizzati e controllati, nei quali i partecipanti sono divisi in almeno due gruppi, uno dei quali assume il nuovo farmaco, l’altro il placebo. Alla fine si contano quante persone sono migliorate in un gruppo e quante nell’altro. Di norma, né il medico né il paziente sanno chi sta assumendo il farmaco attivo e chi il placebo (doppio cieco). Viene quindi dato per scontato che il placebo abbia una sua intrinseca efficacia, e i nuovi farmaci devono dimostrare un margine di attività in più, che va ad aggiungersi a quella, non trascurabile, insita nello stesso processo di cura. E per certe condizioni, l’attività del placebo raggiunge un livello tale che può diventare davvero difficile capire se un nuovo farmaco funziona davvero.

L’aspettativa, elemento base dell’efficacia
Per verificare quest’ipotesi Jeffrey Mogil ha operato, assieme a un gruppo di collaboratori, una revisione di 84 trial clinici sul trattamento di una forma particolare di dolore, quello neuropatico, condotti tra il 1990 e il 2013 utilizzando farmaci confrontati con il placebo. Ne è emerso che l’efficacia media di quest’ultimo risultava quasi raddoppiata; nello stesso periodo i trial, almeno quelli realizzati negli Stati Uniti, erano però diventati sempre più lunghi e di grandi dimensioni: dalle quattro settimane medie del 1990 si era passati alle 12 settimane del 2013, e dal coinvolgimento di 50 pazienti in media del 1990 si era passati a più di 700 pazienti nel 2013. «Secondo Mogil, questi cambiamenti, assieme all’arrivo sul campo delle cosiddette CRO, le Contract Research Organizations, potrebbero essere stati gli elementi nuovi che hanno contribuito ad accrescere l’efficacia del placebo, e io concordo con questa spiegazione», chiarisce il dottor De Carolis. Le CRO sono organizzazioni professionali che gestiscono i trial clinici per conto dell’industria farmaceutica o di istituzioni impegnate nella ricerca. «Il loro apporto potrebbe aver modificato le modalità di relazione con i pazienti che entrano nei trial, così che essi hanno sviluppato sempre maggiori aspettative, un elemento fondamentale dell’efficacia del placebo. Credo che per il futuro le cose cambieranno ancora perché molta ricerca si effettuerà utilizzando direttamente i grandi database dell’assistenza clinica».

Il risultato positivo è maggiore se si crede che la pillola costi tanto
Affinché un placebo funzioni, conta anche il rapporto tra il medico e il paziente all’interno del quale avviene il trattamento. Più è “coinvolgente” maggiore è l’efficacia. Ma c’è anche una componente economica perché oggi si sa, almeno per il dolore, che un placebo ritenuto costoso dà risultati migliori, come ha dimostrato una ricerca pubblicata sulla rivista JAMA da Rebecca Waber. «Il fenomeno è rilevabile anche per malattie complesse come quella di Parkinson», aggiunge Piero de Carolis, responsabile dell’Unità operativa Ricerca ed Appropriatezza clinica dell’Azienda Usl di Bologna. «Uno studio pubblicato sulla rivista Neurology da un gruppo guidato da Alberto Espay del Department of Neurology dell’UC Neuroscience Institute di Cincinnati (Usa), ha mostrato che nei parkinsoniani l’aggiunta di un placebo ha un effetto superiore se il paziente viene informato che ha un costo elevato. Il placebo è inerte, ma non lo è l’atto di prendere la pillola. «L’alterazione del sistema regolatorio, che sta alla base della gratificazione emotiva, può essere la spiegazione di quanto osservato da Espay»

Tratto dal Corriere Salute del 6 Dicembre 2016

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